L’acqua. Dentro l’acqua nasciamo, senza acqua moriamo. Cerco sempre l’acqua, anche per le mie foto, per questo non potrei farne a meno, delle foto, che per me sono vita. La mia vita è un’immagine, quando cammino, quando leggo, quando penso, vedo sempre immagini, e spazio. E così mi sono trovato più volte a esplorare il paesaggio risalendo un fiume, un corso d’acqua, perché so bene che l’acqua ci (ri)porta alle origini, è un’immersione nel profondo della nostra esistenza, e della nostra coscienza, esplorare le sponde di un fiume ci aiuta a scorgere e vedere quello che non abbiamo mai saputo notare e che a volte abbiamo cercato di rimuovere. Il fiume ci aiuta a raccontare la relazione di questi spazi solitari attorno all’acqua che scorre da sempre perché i luoghi sono abitati anche nei loro vuoti, la città è fatta non solo di spazi pieni e sedentari ma anche di spazi vuoti, sconosciuti e in movimento come quelli percorsi dall’acqua di un fiume. Il fiume è una traccia e segno divisorio, è un elemento architettonico naturale che separa due spazi e noi per consuetudine e un certo timore tendiamo a guardare solo la parte piena.
Percorrere gli argini del fiume dentro una grande città come Roma è un’indagine non solo del luogo ma del fotografo stesso che ha voluto memorizzare quelle immagini, e dunque un grande e profondo viaggio dentro di sé. Ecco perché ho voluto associare questa serie di scatti di qualche anno fa al momento che abbiamo appena trascorso, all’isolamento della quarantena da Covid-19 che ci ha reso tutti nudi davanti a noi stessi e più vulnerabili. Ho scattato quasi mille fotografie durante la quarantena, molte sono state pubblicate e condivise, tutta Roma completamente deserta, bellissima, eppure ho voluto scegliere queste immagini meno scontate, antispettacolari, più intime. Sono fotografie anche queste di isolamento e solitudine. Avrete allora compreso che la fotografia con cui mi accingo a raccontarvi il mio cammino non è la riproduzione prevedibile della realtà, quella del tempo in cui sono state scattate le fotografie, non è una rappresentazione di una porzione di territorio, né tantomeno una veduta della città. Vedrete piuttosto l’anima del fotografo, il suo occhio dietro il mirino della macchina fotografica, come dico spesso, vi racconta il suo stato d’animo davanti alle inquadrature che vedete.
Siamo dentro una zona franca in cui tutto è possibile e niente immaginabile, ci facciamo largo fra la macchia, fra le piene del fiume, siamo in un tratto nascosto nel quale l’uomo si fa vedere in maniera meno invasiva. E lì dentro, fra le pieghe della città, nei suoi interstizi, riusciamo ad ascoltare una musica che non avremmo mai pensato di udire. Ho sempre pensato che la pausa fosse il momento di massima espressività di una frase musicale, o di un discorso. Uno squarcio nella parte nascosta del nostro pensiero, che esiste ma non si vede. Come un’inquadratura, ci permette di guardare anche fuori dai suoi confini reali. La pausa è un respiro profondo, è tensione, è attesa, una sospensione o una dilatazione del tempo drammaticamente capace di polarizzare l’attenzione proprio in quel tratto di assenza, o di vuoto. Che non è desolazione e morte, come un deserto, piuttosto un luogo abitato che nasconde numerose sorprese e tracce di vita inaspettate. Le pause sono gli interstizi delle nostre città, il fuori campo del discorso musicale.
Roma è anche questo e non lo sappiamo. Una musica sconosciuta con tante pause. Quindi tanti interstizi nascosti. Sono silenzi interminabili che ci parlano di un mondo tutto da esplorare. Risaliamo allora la corrente e scopriamo l’Aniene, l’altro fiume di Roma, a molti sconosciuti, e lo ripercorriamo proprio da quel punto in cui incrocia le acque del Tevere, sulla sponda opposta di Tor di Quinto. Ci sono case popolari, case abusive, case abbattute, case abbandonate, orti, sterpaglia, strade sterrate, campi Rom. Un mondo da scoprire, luoghi da esplorare, un paesaggio inusuale quasi al centro di Roma.